“…………e lucemi da lato
il calavrese abate Giovacchino
di spirito profetico dotato”
( Paradiso XII, 139-141)
Gioacchino da Fiore nacque a Celico in provincia di Cosenza, prima monaco e poi abate dell’ordine cistercense, fondò nel 1189 un nuovo ordine monastico, detto in seguito florense, che ebbe il suo primo cenobio in Sila, nei pressi di San Giovanni in Fiore. Nelle sue opere sostenne una profonda riforma religiosa e profetizzò l’avvento di un mondo nuovo, rinnovato moralmente e socialmente.
Le sue tesi ebbero una grande influenza, furono però condannate o ampiamente seguite tra i francescani spirituali.
Un avversario delle tesi gioachimite fu Bonaventura da Bagnoregio, alto rappresentante della corrente agostiniana del XIII secolo.
Nel Canto XII del Paradiso, Bonaventura condanna aspramente la decadenza dei francescani, divisi da contrasti e odio, alcuni poiché sfuggivano alla regola verso una vita facile e rilassata, altri, gli spirituali, per la tendenza ad irrigidire la regola, anteponendo l’ascetismo al compito dell’apostolato. San Bonaventura contrappone alle deviazioni dei confratelli l’umiltà, la serenità e l’assenza di rigidità nella penitenza e nell’osservanza della regola. Nella seconda corona degli spiriti sapienti, gli sono accanto i Santi della prima generazione francescana e poi da destra verso sinistra, con un ritmo rapido e impetuoso, contenuto in un breve giro di terzine, San Bonaventura presenta quasi un elenco di nomi, che si quieta soffermandosi infine, con grande rispetto, al “calavrese abate Giovacchino”, a cui rende giustizia con “ lucemi da lato”, e ripete la formula liturgica che nei giorni della festa di Gioacchino veniva recitata nei conventi dell’ordine Florense: “di spirito profetico dotato”.
Come più volte evidenziato da vari e autorevoli studi, nel pensiero e nell’atteggiamento gioachimita, Dante rinveniva un intimo legame con il suo ideale di riforma, ed entrambi affidavano alla Chiesa, attraverso la visione e la profezia, una missione per la salvezza e il rinnovamento della società.
Domenico Martire, sacerdote cosentino, nel suo manoscritto seicentesco “Calabria sacra e profana” conservato nell’Archivio di Stato di Cosenza, dedica una lunga trattazione al “Beato” Gioacchino da Fiore, soffermandosi sulla vita, sugli scritti, sui viaggi.
Nel 1202 Gioacchino da Fiore lasciò la vita terrena in odore di santità, inizialmente sepolto a Pietrafitta, il suo corpo venne traslato nell’abbazia intorno al 1226.
Nel 1648, il reverendo don Antonio Ripoli, cappellano della Chiesa di Santa Maria del Fosso di Celico, in un atto notarile dichiara che in passato il reverendo fra’ Giacomo da Celico aveva ricevuto il “ganasso seu gangarello” (dente molare) dell’Abate dai Padri del Convento di San Giovanni in Fiore.
L’Avvenuta consegna della reliquia era attestata in un atto notarile del 1636 da parte dell’Abate Macario Martino, il quale dichiarò che fra’ Giacomo aveva ricevuto anche una costola del Beato ed altre tre reliquie di Nostro Signore e della Vergine che erano state donate proprio dall’abate Gioacchino. Il “ganasso” venne poi consegnato da fra’ Giacomo al Convento di San Francesco di Paola di Spezzano Grande, con l’impegno di conservarlo nella chiesa di Santa Maria del Fosso che secondo la tradizione era stata edificata sul perimetro della casa natale del Beato Gioacchino.
(ASCS, Notaio A. Arnone, n. 96, 1648, cc. 61v-62v. )
N. Sapegno, Dante Alighieri, La divina Commedia, Paradiso
Abate Gioacchino, Organo trimestrale per la causa di Canonizzazione, Anno I- Numero 2-3